lunedì 6 aprile 2009

IL NOSTRO SILENZIO SUL DARFUR





"Il carnefice ballava mentre il sangue della bambina gli colava addosso"di DAOUD HARI e tratto dal giornale de LA STAMPA del 22.04.2008
Quella sera, mentre aspettavo il ritorno di alcune squadre che si erano avventurate ai margini di quel grande campo, un amministratore uscì dal suo ufficio e mi vide. «Daoud!» esclamò. «Che ci fai qui?».Sapeva che la legge vietava a un rifugiato in Ciad di fare il lavoro che stavo facendo, quindi mi incamminai lentamente verso di lui, prendendomi il tempo di riflettere. Ero a metà strada quando un uomo non ancora quarantenne, con una veste sporca e lacera e uno scialle sulla testa, sbucò all’improvviso dalla boscaglia che circondava il campo e venne verso di me. Sembrava molto agitato, e forse un po’ demente. Il suo viso irradiava dolore come una stufa il calore. Mi afferrò la mano e la tenne stretta, dandomi dei leggeri buffetti.«Tu sei uno zaghawa» disse «e devo dirti qualcosa in privato».Dopo un breve tratto nella boscaglia mi invitò a sedermi con lui sulla sabbia. La moglie dell’uomo si avvicinò: «Non c’è più con la testa. Per favore, non fargli domande». Ma io vedevo che quell’uomo aveva bisogno di sfogarsi, quindi chiesi alla moglie se potevo semplicemente ascoltarlo, poiché due zaghawa devono essere amici comunque. Lei acconsentì e si tenne a distanza, passeggiava avanti e indietro e ci osservava.Venivano del Darfur settentrionale. Il loro villaggio era stato attaccato e distrutto qualche mese prima del mio.«Tutti fuggivano il più velocemente possibile. Mia moglie stringeva tra le braccia il nostro figlioletto di due anni, e correva in una certa direzione fra gli arbusti. Grazie a Dio era la direzione giusta. Io ho preso la mia bimba di quattro anni, Amma, e siamo scappati in tutta fretta in un’altra direzione. Quando loro mi hanno preso, i janjaweed, ho lasciato andare la sua mano e le ho detto di fuggire. Ma lei invece di correre è rimasta a guardare fra i cespugli mentre quelli mi picchiavano e mi legavano a un albero con le braccia dietro, così» e con le braccia formò un anello dietro la schiena.«Uno dei janjaweed ha cominciato a torturarmi. Mia figlia non ha retto quella vista e si è precipitata verso di me, gridando: “Abba, Abba”». A quelle parole, “Papà, papà”, l’uomo fu soffocato dall’emozione e fece una lunga pausa.«Il janjaweed che mi aveva legato all’albero ha visto mia figlia correre verso di me e ha abbassato il fucile per infilzarla con la baionetta. Ha spinto con forza e la lama le ha trapassato lo stomaco da parte a parte. Lei seguitava a urlare: “Abba! Abba!”.«Poi lui ha sollevato il fucile piantato nel corpo di mia figlia, con il sangue di lei che gli colava addosso. Si è messo a ballare reggendola in alto e ha gridato ai suoi amici: “Guardate, sono o non sono un duro?”. E loro rispondevano in coro: “Sì, sì, sei un duro, un duro, un duro!” mentre uccidevano altre persone.«Mia figlia mi chiedeva aiuto con gli occhi, tendeva le braccia verso di me in preda a un’atroce sofferenza. Cercava di dire “Abba”, ma dalla sua bocca ormai non usciva alcun suono.«Ci ha messo molto tempo a morire, il suo sangue colava, rosso e fresco, su quel… cos’era mai? Un uomo? Un demonio? Era tinto di rosso dal sangue della mia bambina e ballava. Cos’era?».Quell’uomo aveva visto il male e non sapeva dargli un nome. Voleva una risposta, e voleva sapere perché la sua bambina avesse meritato tutto questo. Poi, dopo aver pianto un po’ senza parlare, mi disse che adesso non sapeva più chi era. «Sono una donna che deve restare in questo campo, o un uomo che deve andare a combattere, lasciando moglie e figlio senza protezione?». Mi guardò come se potessi fornire una risposta alla sua vita. Una risposta che non ero in grado di dargli. «Sei ancora vivo» dissi. «Non ti hanno ucciso».«Esiste una tortura peggiore di questa?» ribatté lui. «Esiste una tortura peggiore di dover dire tutto questo a mia moglie e a mio figlio?».La donna venne a sedersi accanto a lui e levò qualche fogliolina dalla sciarpa che gli avvolgeva la testa. Mi disse che dopo l’attacco suo marito non ragionava più come prima.«Grazie a Dio abbiamo nostro figlio, e lui sta bene. Ho spiegato a mio marito che Amma non c’è più e che dobbiamo pensare al futuro. Ma lui non riesce a liberarsi da quel che ha visto». [...]Quando tornai in quello stesso campo molto tempo dopo e chiesi allo sceicco di aiutarmi a ritrovare quella famiglia, l’uomo se n’era andato e sua moglie non si ricordava di me. Sembrava più svanita di prima. Aveva ancora suo figlio, che a quell’ora era alla scuola del campo. Ero tornato perché quella storia che l’uomo non riusciva a scacciare dalla sua mente adesso era finita nella mia mente, e si mescolava ad altre storie nei miei sogni, svegliandomi praticamente ogni notte. Pensavo che parlare con lui potesse aiutare entrambi, ma lui era andato via, forse a combattere, a mettere fine alla sua vita, come stavo facendo anch’io, alla mia maniera.







L'AUTORE, Catturato e liberato nel 2006 negli Usa è una voce dall’inferno del Darfur, la regione sudanese che dal 2003 è teatro di un feroce conflitto tra la locale maggioranza nera e la minoranza araba (maggioranza nel resto del Paese) appoggiata dal governo centrale di Khartum. Si intitola Il traduttore del silenzio (ed. Piemme, pp. 218, EUR 14,50) la drammatica testimonianza di Daoud Hari. Di etnia zaghawa, 33 anni è fuggito in Ciad dopo aver visto bruciare il suo villaggio nel Darfur da parte degli janjaweed, miliziani arabi filogovernativi. Mentre altri rifugiati (circa due milioni hanno varcato in questi anni il confine ciadiano) sono poi tornati a combattere in Darfur, Daoud Hari ha fatto una scelta diversa: conoscendo l’inglese, conoscendo bene il territorio e la sua gente, si è offerto come interprete e guida per giornalisti e delegazioni straniere nella sua terra martoriata, dove è potuto rientrare spacciandosi per ciadiano. In una di queste missioni, con il giornalista-scrittore americano Paul Salopek, due volte premio Pulitzer, è stato catturato nel 2006. Accusati di spionaggio, dopo un processo farsa i due sono stati liberati grazie all’intervento degli Stati Uniti, sollecitato da una vasta mobilitazione animata tra gli altri da Bono degli U2.

Nessun commento:

Posta un commento